Articolo a cura di Massimo Cecchini
“In Italia la linea più breve per unire due punti è l’arabesco”, ammoniva con somma intelligenza Ennio Flaiano, uno dei più grandi intellettuali del secolo scorso prodotto del nostro Paese. Sarà per questo forse che il calcio, per la smania di essere viscerale (e quindi popolare) a tutti i costi, sceglie spesso la strada di diventare “tranchant”, come se nella vita ogni decisione giusta possa essere presa rimettendosi al testa o croce, senza mai affidarsi alle sfumature o a un percorso fatto di prove ed errori. Il cervello umano, del resto, è un mistero di cui si sa per certo soprattutto quello che non conosciamo, cioè circa il novanta per cento delle sue potenzialità. Per questo non è difficile associare due notizie che paiono unite da un filo invisibile eppure solido.
La Roma ha appena accomiatato lo psicologo statunitense Tim Coates, che si è aggirato nei corridoi di Trigoria per meno di un mese, da quando cioè la squadra che fu di Juric aveva perso a Firenze per 5-1. Conveniamo che un professionista che presenta se stesso sui social come “esperto della mente” possa far sorridere (probabilmente non lo avrebbero fatto nemmeno Freud e Jung), ma accompagnarlo alla porta dopo avergli appena fatto firmare un contratto fino al 2026 sembra indice quantomeno di approssimazione. Le spiegazioni ufficiose raccontano come dell’aspetto psicologico dei calciatori adesso se ne occuperà direttamente il nuovo allenatore, Claudio Ranieri, quasi che abbia così poco lavoro da fare sul campo da potersi dedicare a combattere anche le insicurezze di ragazzi spesso immaturi.
Non è la prima volta che il club giallorosso – così come i maggiori al mondo – prova a dare ai propri tesserati il supporto di psicologi o almeno di “mental coach” dall’approccio a volte un po’ troppo sciamanico. La prima volta avvenne sotto la presidenza di Rosella Sensi, la seconda nell’era di James Pallotta. In quest’ultimo caso, essendo assolutamente volontaria la facoltà di affidarsi o meno ai colloqui con un professionista, possiamo dirvi che solo in quattro capirono che una scelta del genere poteva arricchirli sotto ogni punto di vista, e proprio per questo non ne facciamo i nomi per non svilire la maturità degli altri.
Eppure, proprio adesso che il bombardamento social espone dei ragazzi – più o meno volontariamente – a delle pressioni feroci che i campioni di altre generazioni non avrebbero potuto neppure immaginare, a volte si sceglie o di ignorare i potenziali benefici anche sportivi che potrebbero derivare da un percorso psicologico personale (e molte società, infatti, non si pongono neppure il problema), oppure si decide un ritorno al passato, proprio come nel caso della Roma, in cui l’allenatore deve essere anche un motivatore, come se le menti di venticinque giocatori funzionassero tutte allo stesso modo. Eppure, pur non essendo dei sofisticati indagatori dell’anima, tecnici come Helenio Herrera o José Mourinho avevano già capito come “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”.
D’altronde, che uno sportivo di primo livello spesso debba spesso essere accompagnato nella crescita, lo fa comprendere bene la bella intervista rilasciata da Roberto Mancini a Hoara Borselli, pubblicata su “Il Giornale”. L’ex campione ed ex c.t. azzurro, raccontandosi, ha messo a nudo alcune fragilità con radici antiche, prima fra tutte “il grande rimpianto” di avere smesso di studiare in terza media. Ma c’è anche altro. Il quindicenne che ricevendo quarantamila lire dopo il primo mese di Serie A, chiede stupito ai dirigenti del Bologna: “Ma mi pagate per giocare a calcio?”, è diventato l’uomo che a 59 anni lascia la Nazionale per accettare una faraonica offerta proveniente dall’Arabia Saudita, per poi ammettere oggi con grande onestà: “È stata una scelta sbagliata, che non rifarei”.
La parabola di Mancini è stata quella di un vincente, sia da calciatore che da allenatore, prima in virtù di un talento cristallino e successivamente grazie a una conoscenza approfondita del calcio. Eppure, soprattutto per chi non possiede le qualità di un ”dieci” come lui, confrontarsi con i propri limiti e le proprie fragilità è segno di un desiderio di crescita che può portare lontano. Certo, non basterà esorcizzare i fantasmi della psiche per trasformarsi in campioni, ma servirà di sicuro per diventare persone migliori. Gente che al calcio malato dei nostri giorni, in fondo, servirebbe davvero.