La sfera è sul dischetto, lo stadio è silenzioso come può esserlo uno stadio, il portiere si muove dalla parte sbagliata, ma il pallone accarezza il palo e finisce fuori. Una dinamica di gioco che non meriterebbe neppure di essere raccontata visto l’infinità di volte che si è verificata. È il seguito, però, che merita di essere raccontato, così come si racconta della banalità del male.
Cutrone, quando la parola senza controllo è lecita
A calciare quel rigore è stato Patrick Cutrone, attaccante del Como, a sua volta attaccato sui social per quell’errore che, da domenica, pesa nella sua testa come un male oscuro. Malattia e morte per lui, sterminio per i figli: questo è quanto gli viene augurato da tristi personaggi dai nomignoli improbabili come i loro desideri. L’aspetto più malinconico, però, è che persino questa storia ha l’aria di un “deja vu”, proprio come uno dei milioni di rigori sbagliati di cui è piena la narrazione calcistica. Perché questa forma di reazione, ormai, è del tutto sdoganata a ogni livello, e poco importa se si scateni per tifo genuino, per deviazione fantapallonara o per lucro da scommessa. La parola senza controllo è lecita, tanto che persino i molti – la maggioranza – che per fortuna s’indignano per quanto successo a Cutrone, a volte usano un linguaggio non poi troppo distante da quello degli odiatori.
A pensarci bene, anche le reazioni al presunto fallo da rigore di Bremer nel corso di Juventus-Roma spesso accarezzano il pelo all’urlo, al complotto, all’infamia per il dissidente. Verrebbe da scrivere: pensate che il calcio sia un gioco truccato? Pensate che sia irredimibile? E allora perché lo seguite? Forse esistono discipline sportive assai più sane perché meno contaminate dagli interessi economici: perché non appassionarsi a quelle? Perché condannarsi ad assistere ogni fine settimana a partite eterodirette per le quali, addirittura, pagare biglietti o abbonamenti televisivi? Se il calcio è marcio, fatene a meno, oppure divertitevi con quello minore, non contaminato (ma sarà vero?) dal dio denaro. E se invece il problema fosse altro? Se aveste paura che i vostri weekend diventino all’improvviso così vuoti da scoprire che non sapete interessarvi a nulla se non a una palla che rotola? Ma davvero è opportuno affidare al calcio – a un rigore segnato o fallito – la vostra identità? Davvero secoli di lotte per il diritto alla libertà di parola devono finire per essere impiegati nell’augurio di sterminio a chi sbaglia dal dischetto?
La delicatezza non appartiene ai social
Giorni fa ho seguito su X uno scambio di opinioni fra un’amica, che ha subito un terribile lutto, e un “nickname” che non cito per non fornirgli visibilità. Quest’ultimo, pur senza offendere, parlando della tragedia si esprimeva nei confronti di P. con una durezza inusitata anche quando è venuto a conoscenza dei fatti. E all’ovvio risentimento di lei ha replicato: “La delicatezza non appartiene ai social. Se non ti piacciono le risposte cancellati”. La curiosità mi ha portato a leggere alcuni dei suoi post precedenti, scritti in un italiano tutto sommato sufficiente. Con mia grande sorpresa – lo confesso, ero prevenuto – ho scoperto che diversi dei pareri (dalla politica alla televisione) li condividevo, eppure mi sentivo ugualmente anni luce lontano da lui. E allora mi sono chiesto: chi ha deciso che la delicatezza non appartiene ai social? Quando abbiamo ufficializzato che la tenerezza ci rende inefficaci? Perché la parola “giusta” è sempre quella più sguaiata? Non esiste risposta convincente. So solo che la passione per lo sport non ci assolverà né dal peccato dell’ira né da quello – ben maggiore – della vanità.