Se non fosse stata scritta da un dichiarato comunista, è possibile che persino un magnate statunitense come Dan Friedkin, proprietario della Roma, avrebbe potuto sottoscrivere la celebre frase: “Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Invece, in tempi trumpiani, è meglio andarci cauti. Perciò è chiaro come ancora una volta Bertold Brecht non trovi cittadinanza alle latitudini del nostro calcio. L’ultimo eroe dei nostri giorni – quello di cui abbiamo scoperto di avere terribile necessità – è Paulo Dybala, che ha rifiutato i 25 milioni a stagione offerti dagli arabi dell’Al-Qadsiah per accontentarsi dei 7 milioni della Roma, che fra 13 partite diventeranno 9.
Verrebbe da sorridere se persino i principali telegiornali non avessero messo questa notizia fra i titoli di testa, di fatto certificando l’onda social che prima proiettava la notizia nell’empireo della gioia e poi in qualche modo spingeva fuori di casa qualche bimbo – si spera con genitori al seguito – per arrivare fino a casa Dybala per ringraziare del sacrificio.
Il “sacrificio” di Dybala e gli eroi nel calcio
L’aspetto tecnico non è in discussione. Chi scrive ritiene che l’argentino sia uno dei tre calciatori più forti e più portatori sani di bellezza dell’attuale (e spesso malinconica) Serie A. Di sicuro l’unico della Roma che meriterebbe senza esitazioni di giocare la Champions League da protagonista. Il dubbio è: perché farne un eroe? Perché farne un modello che scaldi i cuori dei ragazzi quando si sa come la diversa qualità delle offerte (fosse arrivata una chiamata dai top club) e le mutate tempistiche (fosse stata chiusa prima la trattativa) avrebbero potuto cambiarne l’esito? Già questo farebbe fare apparire forzato il paragone con Gigi Riva (ben prima della legge Bosman), ma non è questo il punto.
Gli eroi, in realtà, sono altri. Vediamo la definizione che ne dà il dizionario Treccani. “Chi in guerra o azioni di altro genere, dà prova di grande valore o coraggio affrontando gravi pericoli o compiendo azioni straordinarie”. Oppure: “Chi dà prova di grande abnegazione e spirito di sacrificio, impegnandosi a fondo per un ideale nobile”. Crediamo davvero che la scelta di Dybala rientri all’interno di questi perimetri? E come faremmo un giorno a far capire ai nostri figli, drogati dai social, che fra la Joya e Gino Strada c’è differenza? Che tra il coraggio di “Medici senza Frontiere” e quello di chi passa da 25 milioni all’anno ad appena 9 si colloca quell’abisso che rende il nostro mondo esposto – in ogni settore – a un’onda di melassa retorica tanto stucchevole quanto evanescente?
Lo stesso discorso si può fare per le accuse speculari di tradimento. Nel calcio del Terzo Millennio – che noi abbiamo accettato inchinandoci a tutte le remunerate e vuote sciocchezze che marketing e comunicazione hanno ideato per abbindolarci – non esistono fedeltà o tradimenti, ma solo percorsi lavorativi e familiari. I calciatori non sono mai eroi o traditori. Siamo noi che abbiamo bisogno che lo siano per provare a fornire una patina di nobiltà ai nostri vuoti di esistere, che lasciamo sia un gioco a riempire per non guardarci dentro.
Commentando la scelta di Dybala, pochi giorni fa Dino Zoff diceva con grande sincerità: “Onestamente non so che cosa avrei fatto se mi fossi trovato al suo posto, ma non credo che la sua scelta sia un messaggio per i giovani. Non è il caso di farne un eroe. Se un giocatore di classe deve scegliere su basi calcistiche, tra Serie A e campionati arabi non c’è paragone”. Questo diceva il capitano dell’Italia campione del Mondo 1982, diventato francobollo grazie al ritratto di Guttuso che lo immortala mentre alza al cielo la Coppa. Eppure parliamo di un portiere e non di un eroe. Per fortuna.